E non vi dico la rabbia che mi monta in Italia al supermercato. 😛
Categoria: Inseriti e integrati
Parlare inglese in Svezia: lavoro e comunicazione
A volte mi capita di trascurare il blog per troppo tempo. Ho cose da raccontare, ma un insieme di altre priorità mi tiene sempre lontano. Prometto che, nelle prossime settimane, cercherò di essere più attivo.
Quello che segue è un file che ho scritto per il gruppo Facebook Italiani In Svezia: anche se, fondamentalmente, ripropone cose che ho già espresso su queste pagine (ad esempio qui), mi sembra comunque una buona cosa proporlo anche nel blog, come riassunto della situazione e promemoria.
Comunicare in Svezia: l’inglese, lo svedese e le differenze culturali
Una delle richieste che molti fanno quando chiedono informazioni a noi residenti in Svezia è “riuscirò a trovare lavoro lì parlando solo inglese?”
La risposta è: “nella stragrande maggioranza dei casi, no. Soprattutto se cercherai un lavoro che richiede un minimo di contatto con il pubblico.”
Anche se quasi tutti gli svedesi parlano inglese, molti di loro si trovano fortemente a disagio nel farlo.
Questo perché per loro la cosa richiede comunque uno sforzo, oltre che il dubbio di esprimersi correttamente e la paura di scatenare incomprensioni da cui possano scaturire conflitti. E nessuno vuole sentirsi in una posizione di svantaggio rispetto all’interlocutore. I datori di lavoro lo sanno, e preferiscono assumere persone che, parlando lo svedese, possano mettere a loro agio gli interlocutori. Soprattutto se parliamo di loro clienti che, altrimenti, potrebbero rivolgersi alla concorrenza.
C’è un altro fattore che i datori di lavoro conoscono bene: persone di nazionalità diverse comunicano, per abitudine culturale, in maniera molto diversa.
L’infogratica di cui sopra, concepita dal linguista Richard D. Lewis, ne è un perfetto esempio.
(trovate il file completo, con altre nazionalità, qui.)
Il fatto di avere una lingua in comune, come l’inglese, non ti mette al riparo da incomprensioni culturali nel modo in cui le cose vengono dette, soprattutto quando metti a confronto due modi diversi di comunicare come quello italiano (schietto, diretto e rumoroso) e quello svedese (pacato, mediato, misurato).
Quello che per te può essere un comportamento o un modo di parlare assolutamente normale, per uno svedese può essere inopportuno, ineducato, fastidioso o offensivo.
Anche se non sei a contatto con il pubblico, i datori di lavoro sono al corrente di queste problematiche, e potrebbero volere, ad esempio, limitare contrasti o situazioni spiacevoli fra colleghi.
Soprattutto in un paese in cui ai contrasti aperti non sono abituati.
Il fatto che tu sappia lo svedese, al di là della lingua stessa, implica, nella maggior parte dei casi, che tu sia già stato abbondantemente esposto alla cultura, la mentalità, il modo di pensare e di discutere di uno svedese medio. E questo, per un datore di lavoro, può essere sicuramente una garanzia di minori incidenti culturali.
Peraltro, le problematiche di cui sopra potrebbero esprimersi già in fase di colloquio di lavoro, indisponendo il potenziale datore o facendogli/le pensare che tu non sia ancora adatto a lavorare in un contesto svedese.
Poi, sia chiaro, ci sono sempre le eccezioni: ci sono datori di lavoro che non si fanno problemi al riguardo (ma solo perché ritengono di avere l’ambiente giusto perché sia così), ci sono professionalità per cui la questione lingua/comunicazione passa in secondo piano rispetto alle altre capacità richieste o, ebbene sì, ci sono anche quelli che cercano semplicemente persone da sfruttare biecamente e senza regole (situazione per cui la non conoscenza della lingua e della realtà locale da parte del lavoratore diventa persino un vantaggio). Ecco quindi che molti riescono comunque a trovare lavoro sapendo solo l’inglese. Ma sono, appunto, l’eccezione, non la norma. E, a parità di altre competenze, una persona che non sappia lo svedese sarà sempre sfavorita rispetto ad un concorrente che lo parli.
Perciò, se vuoi vivere in Svezia… STUDIA LO SVEDESE!
POSTILLA: tutto quanto scritto qui sopra è, ovviamente, un’aggiunta alla considerazione, più semplice e che davo per scontata, per cui, in ambito, ci possono essere istruzioni (scritte o parlate) solo in svedese. In tal caso ci potrebbero essere incomprensioni se non veri e propri problemi di sicurezza.
Inseriti e integrati
Sono in Svezia da 25 anni, e ho festeggiato Midsommar solo una volta.
Questa frase, pronunciata da un conoscente una decina di giorni fa, mi ha dato parecchio da pensare sulla questione immigrazione. La persona in questione è un ragazzo di neanche trent’anni, immigrato quando era bambino dall’America Latina con la sua famiglia; pur con un accento terribile (una versione innaturale e imbruttita dello skånska) parla, ovviamente, uno svedese migliore del mio ed è inserito in Svezia sin dalla sua infanzia. Scelgo la parola “inserito” di proposito, perché oggi più che mai mi rendo conto di quale sia la differenza fra “inserito” ed “integrato”.
La stragrande maggioranza degli immigrati svedesi è infatti palesemente inserita, ma non integrata.
Per un attimo vorrei però rovesciare la prospettiva, e non dare, come spesso capita, tutte le colpe alla società svedese. Società svedese che, si chiaro, è stata tutto fuorché impeccabile nel gestire il fenomeno (un po’ troppo facile accettare tanta gente e abbandonarla a se stessa nei cosiddetti “quartieri ghetto”, non favorendo un vero processo integrativo); un assunto fondamentale, questo, che non può essere messo in dubbio.
Di questi immigrati, quanti, però, hanno cercato veramente di integrarsi con la società svedese, anziché limitarsi a trapiantare i propri usi e costumi in un’altra nazione?
Per carità, è un problema vecchio come il mondo: le varie Little Italy e Chinatown rese popolari da Hollywood c’insegnano che l’immigrazione di massa porta a comunità che, qualcuna più qualcuna meno, tendono a chiudersi in se stesse, prima che ad integrarsi nel tessuto locale.
Ora… non conosco la persona di cui ho parlato sopra al punto di potere giudicare in qualche modo la sua storia e quella della sua famiglia, ma, in generale, quanti immigrati provano a fare in modo di accettare un qualche livello di svedesità e quanti si chiudono nei propri usi e costumi, nelle proprie credenze e tradizioni, innalzando loro stessi un muro contro ogni possibilità di integrazione?
Non lo nego: per me è facile parlare… mia moglie è svedese e quindi sono esposto in maniera diretta a tutte le usanze, le tradizioni e al modo di pensare degli “indigeni”. E, non lo nascondo, quando vedo coppie o famiglie provenienti “in blocco” anche dall’Italia o altri paesi europei, mi chiedo sempre quanto riusciranno ad integrarsi realmente, parlando la propria lingua in casa, mangiando solo quello cui sono da sempre abituati e così via. Mi chiedo se, se e quando riceveranno la cittadinanza, per loro sarà qualcosa di realmente sentito (come lo è stato per me), o se sarà solo un “pezzo di carta” che ti semplifica la vita.
Mi rendo poi conto di come emigrare non sia facile per nessuno, soprattutto per famiglie che arrivano da condizioni non proprio ideali: per molti, unirsi ad altri connazionali è una necessità, ed è chiaro che in parecchi scelgono la Svezia proprio sapendo già di andare a far parte di comunità di espatriati provenienti dalle stesse aree. Un sistema che rende sicuramente le cose piuttosto facili all’inizio ma che, a mio avviso, le complica inevitabilmente già sul medio termine. E il primo passo, purtroppo, deve essere compiuto dagli immigrati di prima generazione, perché, altrimenti, già i loro bimbi si troveranno in grossa difficoltà.
Che poi, sia chiaro, non è assolutamente una questione di abbandonare le proprie tradizioni, di rinnegare la propria identità. Si tratta, per l’appunto, di integrarle, di accettarne di nuove e di dare un contributo con le proprie: dal confronto fra culture, che deve venire da entrambi i lati, ci può essere, a mio avviso, solo una crescita.
Alcuni svedesi (per fortuna non tanti), quando vedono, ad esempio, una famiglia mediorentale alle celebrazioni di Midsommar, storcono il naso. Io, invece, sono contento: vuol dire che, almeno, ci stanno provando.