Se il quattordici diventa quindici

keep-calmVolete mandare in tilt una discussione con uno/una svedese? Semplice: basta riferirsi al periodo di “due settimane” con l’espressione idiomatica “quindici giorni” e, dopo che sarete stati guardati come un essere proveniente da un altro pianeta, passerete la serata a discutere sul perché si dica così o cosà.
A quanto pare è uno scontro culturale che coinvolge le persone provenienti da paesi in cui si parlano lingue germaniche (inglese incluso) rispetto a quelle provenienti da aree neo-latine: cercando in rete ho visto che la domanda sul perché si usi “quindici” viene fatta anche da chi studia francese e spagnolo, lingua in cui si usa “otto giorni” per indicare una settimana. Cosa che, se vogliamo, la rende più coerente dell’italiano.

In Svizzera, addirittura, è stato fatto un interessante studio (pubblicato originariamente nel Bullettin VALS-ASLA, n° spécial, tome 1, 129-148,2015) in cui si spiega perché, nella norma giuridica, la locuzione tedesca 14 Tage debba essere resa in 15 giorni, e viceversa:

Secondo la mia ipotesi, in italiano si conta anche il giorno stesso in cui si enuncia la locuzione fra 15 giorni, giungendo allo stesso giorno di due settimane dopo, mentre in tedesco il primo giorno contato è quello successivo all’enunciazione della locuzione in 14 Tagen, giungendo parimenti allo stesso giorno di due settimane dopo.

La norma linguistica secondo cui il periodo o il concetto di due settimane si esprime con 15 giorni è antica; la troviamo già nel Decameron (III 7,11; III 7,99; VIII 2, 35; VIII 10, 31; VIII 10, 32; X concl., 3). Nella traduzione di un testo tedesco in italiano ci attendiamo che la locuzione 14 Tage venga resa con 15 giorni, e viceversa. Insomma, vorremmo leggere un testo che usi locuzioni proprie della lingua d’arrivo, come se si leggesse un testo originale. Ed è quanto normalmente accade.

Nella legislazione italiana, segnatamente nel Codice civile e nel Codice di procedura civile, si trovano soltanto esempi di 15 giorni (nessuno di 14 giorni). Anche nella legislazione cantonale ticinese figura soltanto il sintagma 15 giorni. Constatiamo dunque che nella legislazione monolingue italiana, in Italia e in Svizzera, l’espressione usata esclusivamente è 15 giorni, corrispondente alla locuzione della norma linguistica dell’italiano.

Come al solito: piccoli “scontri culturali” che emergono di tanto in tanto, quando meno te lo aspetti. Nel mio caso ci sono voluti solo sette anni! 😀


P.S.: Però lo ammetto: da bambino mi sono chiesto pure io perché si dicesse quattordici e non quindici!

Definitivo sulla Scandinavia

Qualche annetto fa scrissi un articolo un po’ ironico su Scandinavi e Finlandesi. A distanza di qualche anno, mi capita ancora di leggere corbellerie come “la Danimarca non è un paese scandinavo” o “la Finlandia lo è”.

La raffigurazione classica della Scandinavia.  Questa immagine appare tipicamente nei libri scolastici scandinavi.
La raffigurazione classica della Scandinavia.
Questa immagine appare tipicamente nei libri scolastici scandinavi.

Ribadiamo quindi il concetto: la Scandinavia è quell’entità geo-social-politica transnazionale composta da Danimarca, Norvegia e Svezia. E basta. Quello che spesso genera confusione è il fatto che esiste una cosa che si chiama penisola scandinava e che è un oggetto puramente geografico. Ora, pensateci bene, non è una distinzione da poco: San Marino e la Città del Vaticano sono sulla penisola italiana ma non fanno parte dell’Italia, mentre la Sicilia e la Sardegna non sono sulla penisola ma vanno a comporre la nazione italiana.
Andiamo adesso ad approfondire il discorso su come si è arrivati alla definizione moderna di Scandinavia, e sulle distinzioni da fare.

STORIA
C’erano una volta gli scandinavi, quella popolazione germanica che abitava l’estremo nord dell’Europa conosciuta, in quella regione che oggi si chiama Scania (Skåne). Il nome Scandinavia, o la sua variante Scandia, era usato già in epoca latina, ed identificava appunto la suddetta regione (erroneamente ritenuta un isola dagli studiosi romani, come Tacito e Plinio il Vecchio). Gli scandinavi vivevano appunto nel moderno Skåne e nelle regioni limitrofe.

La diffusione dei popoli scandinavi ai tempi dell'età del bronzo nordica. Immagine di pubblico dominio tratta da Wikipedia
La diffusione dei popoli scandinavi ai tempi dell’età del bronzo nordica.
Immagine di pubblico dominio tratta da Wikipedia

Quando si iniziarono a formare gli stati moderni, lo Skåne divenne parte della Danimarca, e restò tale fino al 1658. Quelli successivi alla dissoluzione dell’Unione di Kalmar (1523) furono secoli difficili, con Svezia e Danimarca spesso in guerra reciproca e con la Norvegia territorio di conquista. La stessa acquisizione della Scania da parte della Svezia fu seguita da una profonda repressione e forzata naturalizzazione, che portò alla distruzione di gran parte del retaggio culturale danese della regione (di ciò che resta ho parlato, ad esempio, qui). Ad inizio ‘800, però, le differenze si placarono velocemente, e cominciarono a rafforzarsi i legami fra le tre nazioni, all’insegna di lingue mutualmente intelleggibili (al punto di potere quasi essere considerati dei reciproci dialetti) e decisi punti di contatto culturali e sociali. Nacque un movimento, lo Scandinavismo, che si prefiggeva di creare un’unione fra Svezia, Danimarca e Norvegia. Fra gli intellettuali più celebri che vi parteciparono quell’Hans Christian Andersen noto per la Sirenetta e per altre splendide fiabe: il suo poema “Sono uno Scandinavo” (lanciato dall’incipit “Siamo un popolo solo, ci chiamiamo scandinavi!”) diventò il manifesto del movimento. È in questo contesto che si afferma quindi la definizione moderna di Scandinavia, rappresentata appunto da Danimarca, Norvegia e Svezia… e da nessun altro. A differenza che in Germania o in Italia, il movimento scandinavista non riuscì a sfociare in un vero e proprio risorgimento: la situazione stagnò a lungo, e lo spirito transnazionale si andò affievolendo. In particolare, i Norvegesi non gradivano quell’unione di monarchie con la Svezia che, pur essendo teoricamente paritaria, rendeva in pratica la nazione sottomessa a Stoccolma: se, da un lato, i popoli continuavano a sentire un legame fra loro, la gestione politica da parte di regnanti e governi miopi portò ad un rafforzarsi dei nazionalismi. La mazzata definitiva al sogno scandinavo fu data dall’indipendenza norvegese del 1905, con la dissoluzione dell’unione monarchica e l’instaurazione di un proprio re. Da allora non si parla più di unione politica fra i tre paesi, ma i legami restano comunque molto forti e, pur con le differenze politiche, qualche sberleffo su base culturale e le rivalità sportive (ma gli scandinavi tifano comunque per una delle altre due nazioni, quando la propria viene esclusa da una competizione), i tre popoli continuano a considerarsi come popoli fratelli e parte di quella cosa così speciale che si chiama Scandinavia.
E gli altri? Come si collocano Finlandia, Islanda, Fær Øer e Groenlandia in questo contesto? La risposta è semplice: non si collocano. La Finlandia è stata a lungo parte del Regno di Svezia, occupa una piccola parte della penisola scandinava (vedi sotto) e restano sicuramente dei forti collegamenti fra le due nazioni: nella Terra dei Mille Laghi esistono aree estese in cui la lingua madre è lo svedese, e nelle Tre Corone esistono grandi comunità finlandesi, ma, a parte alcune eredità culturali retaggio del periodo storico, i legami si fermano qui. La lingua finlandese non c’entra assolutamente nulla con quelle dei paesi scandinavi (e, in Europa, ha solo collegamenti con l’estone e, in maniera molto minore, l’ungherese), la nazione ha una propria mitologia (vedi Kalevala) distante dai vari Thor e Odino e la popolazione finlandese appartiene a un pool genetico a parte (e, se proprio bisogna cercare connessioni, è più legata ai popoli slavi del nord-est che a quelli germanici). In nessun modo, quindi, la Finlandia può essere considerata parte integrante della Scandinavia. Per Islanda e Fær Øer, invece, il discorso è forse più complesso: è vero che nei due stati si parla una lingua di ceppo norreno (vedi sotto), che le popolazioni sono di discendenza normanna, e che i due paesi sono (Fær Øer) o sono stati (Islanda) parte del Regno di Danimarca, ma la loro natura insulare ha portato ad avere dei legami molto tenui con le altre nazioni di origine vichinga: storicamente Islanda e Fær Øer erano probabilmente più assimilabili a delle colonie che non a parte integrante della Danimarca e (prima ancora) della Norvegia, e il movimento scandinavista non le prendeva realmente in considerazione se non in questa funzione. Mi è anche stato detto (ma prendetela con le pinze, dato che non ho mai verificato la cosa) che i feringi sentono generalmente un affinità maggiore con gli scozzesi che non con gli scandinavi. Sulla Groenlandia, invece, c’è davvero poco da discutere: fa sì parte del Regno di Danimarca (che oggi comprende, appunto, gli stati di Danimarca, Fær Øer e Groenlandia), ma la sua popolazione è composta per il 90% da inuit (il termine che ha sostituito il semi-derogatorio “eschimese”). Tutto ciò dovrebbe aiutare a risolvere in maniera definitiva il dilemma su cosa è la Scandinavia e cosa no, anche se, ad alimentare la confusione, contribuisce probabilmente il fatto che, nel corso del ventesimo secolo, è emerso un nuovo movimento politico, quello della Cooperazione Nordica, che ha portato alla nascita di quel Consiglio Nordico che vede l’adesione di tutti i paesi sopra citati. Ma i Paesi Nordici non sono la Scandinavia.

GEOGRAFIA

La Fennoscandia, con la penisola scandinava (in rosso) messa in evidenza   rispetto al resto (in blu). Elaborazione mia di un lavoro di Fobos92. Licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported License.
La Fennoscandia,
con la penisola scandinava (in rosso) messa in evidenza rispetto al resto (in blu).

Elaborazione mia di un lavoro di Fobos92.
Licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported License.

In geografia esiste una regione che si chiama penisola scandinava, regione che prende a sua volta il nome dagli antichi scandinavi. Nella penisola scandinava si trovano oggi Svezia, Norvegia, e l’area nord-occidentale della Finlandia. In passato, dal momento che la Scania era parte della Danimarca e la Finlandia era una provincia svedese, nella penisola si trovavano solo le solite Svezia, Norvegia e Danimarca. In molti paesi (ma non nei soliti tre) capita di vedere utilizzare Scandinavia in luogo di penisola scandinava: ci può stare (d’altronde capita di dire “l’Italia” per indicare la penisola), ma bisogna accettare il fatto che non è un utilizzo corretto e che gli scandinavi non accettano questa semplificazione. La regione prettamente geografica è una cosa, quella social-politica un’altra. Molti siano convinti che l’intera Finlandia e persino parte della Russia facciano parte della penisola: anche questa è una cosa non corretta, e si confonde la penisola scandinava con la più vasta regione (che la include) chiamata Fennoscandia. Solo una piccola parte della Finlandia è effettivamente nelle penisola scandinava, la Russia (con la Carelia e la penisola di Kola) non c’entra nulla.

LINGUE
“Va bene per la Finlandia, ma in Islanda si parla una lingua scandinava, no?”. La risposta è “non proprio”. È vero che in Italia (e in molte parti del mondo) si utilizza spesso “lingue scandinave”, ma, alla luce di quanto detto, sarebbe probabilmente meglio ricorrere alla forma “lingue nord-germaniche” o, se proprio si vuole tagliare corto, “lingue nordiche”. Qui nel Nord, “lingue scandinave” viene utilizzato solo ed esclusivamente per indicare svedese, danese e norvegese, le tre lingue che sono mutualmente comprensibili. Uno svedese capirà sempre senza troppi problemi (quantomeno se parliamo di lingua scritta, la pronuncia complica le cose) un danese o un norvegese, ma l’islandese e il feringio gli appariranno come lingue aliene con qualche parola nota (è capitato anche a me di recente, quando mi sono ritrovato affiancato da una compagnia di islandesi). Si parla da tempo di uniformare la lingua delle tre nazioni in una sola, ma questo progetto (pensato sulla falsariga della Nederlandse Taalunie belga-olandese) per ora ha solo generato forme abbozzate e non pienamente codificate di una lingua comune che vengono utilizzate solo in contesti limitati (guide turistiche, assistenti di volo e poco altro ancora). Islandese e feringio sono due lingue per molti versi molto antiche: l’isolamento ha sicuramente portato a mantenere una forma più vicina all’antico norreno ma, al tempo stesso, risentono pure dell’influenza del celtico, visto che le isole furono popolate anche da migranti provenienti da Scozia e Irlanda.
Il sito del Consiglio Nordico è ben specifico nel definire come lingue scandinave solo danese, norvegese e svedese (“Circa 25 milioni di persone vivono nei Paesi Nordici. Molti di noi parlano o capiscono almeno una delle lingue scandinave; danese, norvegese e svedese”). Sullo stesso sito, le tre lingue, più islandese e feringio vengono classificate come “nord-germaniche” o “nordiche”. Insomma, se lo dicono i paesi nordici stessi, che sicuramente se ne intendono delle loro cose, direi che c’è poco di cui discutere.

Concludendo, quindi, direi che non ci può essere alcuna confusione al riguardo: la Scandinavia è una cosa sola, ed è Danimarca più Norvegia più Svezia. Tutto il resto è qualcosa di diverso.
Se poi proprio non ne potete più della seriosità di questo post, i fumetti (in inglese) di Scandinavia And The World vi apriranno un mondo.

P.S.: Ci sarebbe anche da parlare dei Sami, ma ce li lasciamo per un’altra volta.

Parlare inglese in Svezia: lavoro e comunicazione

A volte mi capita di trascurare il blog per troppo tempo. Ho cose da raccontare, ma un insieme di altre priorità mi tiene sempre lontano. Prometto che, nelle prossime settimane, cercherò di essere più attivo.

Quello che segue è un file che ho scritto per il gruppo Facebook Italiani In Svezia: anche se, fondamentalmente, ripropone cose che ho già espresso su queste pagine (ad esempio qui), mi sembra comunque una buona cosa proporlo anche nel blog, come riassunto della situazione e promemoria.

Comunicare in Svezia: l’inglese, lo svedese e le differenze culturali 

Una delle richieste che molti fanno quando chiedono informazioni a noi residenti in Svezia è “riuscirò a trovare lavoro lì parlando solo inglese?”
La risposta è: “nella stragrande maggioranza dei casi, no. Soprattutto se cercherai un lavoro che richiede un minimo di contatto con il pubblico.”

Anche se quasi tutti gli svedesi parlano inglese, molti di loro si trovano fortemente a disagio nel farlo.

Questo perché per loro la cosa richiede comunque uno sforzo, oltre che il dubbio di esprimersi correttamente e la paura di scatenare incomprensioni da cui possano scaturire conflitti. E nessuno vuole sentirsi in una posizione di svantaggio rispetto all’interlocutore. I datori di lavoro lo sanno, e preferiscono assumere persone che, parlando lo svedese, possano mettere a loro agio gli interlocutori. Soprattutto se parliamo di loro clienti che, altrimenti, potrebbero rivolgersi alla concorrenza.

C’è un altro fattore che i datori di lavoro conoscono bene: persone di nazionalità diverse comunicano, per abitudine culturale, in maniera molto diversa.

Italiano - Svedese

L’infogratica di cui sopra, concepita dal linguista Richard D. Lewis, ne è un perfetto esempio.
(trovate il file completo, con altre nazionalità, qui.)

Il fatto di avere una lingua in comune, come l’inglese, non ti mette al riparo da incomprensioni culturali nel modo in cui le cose vengono dette, soprattutto quando metti a confronto due modi diversi di comunicare come quello italiano (schietto, diretto e rumoroso) e quello svedese (pacato, mediato, misurato).
Quello che per te può essere un comportamento o un modo di parlare assolutamente normale, per uno svedese può essere inopportuno, ineducato, fastidioso o offensivo.

Anche se non sei a contatto con il pubblico, i datori di lavoro sono al corrente di queste problematiche, e potrebbero volere, ad esempio, limitare contrasti o situazioni spiacevoli fra colleghi.
Soprattutto in un paese in cui ai contrasti aperti non sono abituati.

Il fatto che tu sappia lo svedese, al di là della lingua stessa, implica, nella maggior parte dei casi, che tu sia già stato abbondantemente esposto alla cultura, la mentalità, il modo di pensare e di discutere di uno svedese medio. E questo, per un datore di lavoro, può essere sicuramente una garanzia di minori incidenti culturali.

Peraltro, le problematiche di cui sopra potrebbero esprimersi già in fase di colloquio di lavoro, indisponendo il potenziale datore o facendogli/le pensare che tu non sia ancora adatto a lavorare in un contesto svedese.

Poi, sia chiaro, ci sono sempre le eccezioni: ci sono datori di lavoro che non si fanno problemi al riguardo (ma solo perché ritengono di avere l’ambiente giusto perché sia così), ci sono professionalità per cui la questione lingua/comunicazione passa in secondo piano rispetto alle altre capacità richieste o, ebbene sì, ci sono anche quelli che cercano semplicemente persone da sfruttare biecamente e senza regole (situazione per cui la non conoscenza della lingua e della realtà locale da parte del lavoratore diventa persino un vantaggio). Ecco quindi che molti riescono comunque a trovare lavoro sapendo solo l’inglese. Ma sono, appunto, l’eccezione, non la norma. E, a parità di altre competenze, una persona che non sappia lo svedese sarà sempre sfavorita rispetto ad un concorrente che lo parli.

Perciò, se vuoi vivere in Svezia… STUDIA LO SVEDESE!


POSTILLA: tutto quanto scritto qui sopra è, ovviamente, un’aggiunta alla considerazione, più semplice e che davo per scontata, per cui, in ambito, ci possono essere istruzioni (scritte o parlate) solo in svedese. In tal caso ci potrebbero essere incomprensioni se non veri e propri problemi di sicurezza.

Grammar nazi

E, per una volta, un plauso alla Gazzetta per averlo scritto giusto.
E, per una volta, un plauso alla Gazzetta per averlo scritto giusto.
Per la serie “problemi da primo mondo”, romperò le scatole all’infinito ai giornalisti italiani finché non si decideranno a usare Malmö FF (o anche solo Malmö) per indicare la squadra di calcio svedese, al posto dell’orribile Malmoe.

Cito da Wikipedia:

Note that unlike the O-umlaut, the letter Ö cannot be written as “oe”. Minimal pairs exist between ‘ö’ and ‘oe’ (and also with ‘oo’, ‘öö’ and ‘öe’). Consider Finnish eläinkö “animal?” (interrogative) vs. eläinkoe “animal test” (cf. Germanic umlaut). In the case the character Ö is unavailable, O is substituted and context is relied upon for inference of the intended meaning.

Che si decidano a capire che lo svedese non è il tedesco.

Chi non risica…

Lo scorso inverno mi sono giocato una nuova grande scommessa della mia vita: con una bimba in arrivo, ho rinunciato ad un impiego a tempo indeterminato con Atea per accettare un contratto di sei mesi in Qlik.
Le motivazioni erano molteplici: il livello tecnico del lavoro da consulente in Tetra Pak era troppo basso rispetto alle mie competenze e capacità, lo stipendio era sotto la media e, come consulente, ero comunque un lavoratore di “Serie B” rispetto ai colleghi direttamente assunti da Tetra Pak.
Ovviamente è stata una decisione che ho dovuto ponderare per bene, ma quando è stato il momento ho deciso di correre il rischio. La possibilità di essere confermati era comunque concreta e, a pensarci, un qualunque contratto standard svedese prevede comunque un periodo di prova di sei mesi, che può essere concluso in qualunque momento senza motivo.

Questi mesi in Qlik sono stati magnifici: il lavoro mi piace parecchio, ho uno stipendio vero, le mie capacità sono apprezzate e i colleghi sono meravigliosi. Mi trovo immerso in una vera realtà multiculturale con persone provenienti da tutto il mondo. La lingua utilizzata nelle conversazioni (ma anche nelle comunicazioni ufficiali) è l’inglese: lo svedese si utilizza solo quando si ha la certezza che nessuno abbia problemi di comprensione, cosa che favorisce l’inserimento di tutti. In Svezia questa è l’eccezione.
Insomma… Se la fortuna aiuta gli audaci, nel mio caso ha proprio colto nel segno.

Ieri la conferma ufficiale: ho firmato il contratto che trasforma il mio impiego temporaneo in uno a tempo indeterminato.
E sono un lavoratore felice.

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Il ponte

Per chi mi chiede cosa ci sia di bello da guardare sulla televisione svedese, segnalo una serie che mi ha folgorato di recente: una spettacolare coproduzione poliziesca svedo-danese intitolata Bron/Broen (“il ponte”).

Nonostante sia ambientata fra Malmö e Copenaghen, e quindi praticamente a casa mia, l’avevo inizialmente snobbata: mi era capitato di vedere uno spezzone di episodio a serie iniziata e avevo avuto l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di terribilmente deprimente.
Nulla di più sbagliato! Riscoperta tramite Netflix, e vista dall’inizio, la serie ti cattura da subito con una tensione incredibile, una trama avvincente e grandi personaggi.

Bron

I protagonisti sono tre: una detective svedese fiscale ed asociale (si intuirà in fretta essere colpita dalla sindrome di Asperger), la sua controparte danese (un poliziotto amichevole e umano, ma chiaramente disastroso nella gestione della vita sentimentale) e, ovviamente, il gigantesco e silenzioso ponte di Öresund, che dà il titolo alla serie ed è teatro di molte scene cardine.
La prima stagione è davvero d’alta scuola: pochissimi effetti speciali, nessun imbellimento, suspence e colpi di scena determinanti.
La seconda ha un impatto iniziale minore (e, forse, qualche incongruenza) ma è comunque notevole nel crescendo.
In ogni caso, roba da tenerti inchiodato di fronte allo schermo!

La serie gioca talvolta sugli stereotipi delle differenze fra i rigidi svedesi e i libertini danesi, ma lo fa senza indulgervi, ed anche per questo è estremamente godibile, grazie anche all’ironia di certi dialoghi e situazioni.
In ogni caso, non aspettatevi solarità e lieto fine a tutti i costi.

L’unica cosa poco credibile di Bron è il parlato: non solo non c’è quasi traccia dello skånska, ma svedesi e danesi comunicano nella rispettiva lingua senza mai alcun problema di comprensione (salvo una scenetta nel primo episodio, messa lì per sbarazzarsi della questione).
D’altronde si è trattato praticamente di una scelta obbligata: le alternative sarebbero state di recitare in inglese (scelta fattibile ma poco “nazionale”) o moooooolto lentamente e con continue ripetizioni. Per fortuna ci sono i sottotitoli!

E, a proposito di sottotitoli, la serie è stata trasmessa dalla BBC con il titolo The Bridge, quindi si trova senza problemi con testo inglese.

Bron è talmente bella che gli americani ne hanno fatto un remake, chiamato anch’esso The Bridge e ambientato fra Texas e Messico: non l’ho visto e non ho, in tutta sincerità, troppe intenzioni di farlo; purtroppo sospetto che in Italia sia arrivato quello e non l’originale, ma forse è bene così: l’ottima interpretazione di Sofia Helin e Kim Bodnia risulterebbe probabilmente uccisa dal doppiaggio. Anche inglesi e francesi hanno fatto un remake di Bron, intitolato, con molta fantasia… (The) Tunnel.
Magari nel frattempo sarete fortunati al punto di avere un rifacimento italo-austriaco a titolo Broennero; personalmente, mi tocca aspettare fine 2015 per la terza stagione dell’originale!

Multilinguismo

Alle medie ho studiato francese, ma sono poi passato all’inglese, che parlo e capisco piuttosto bene. Ovviamente, dopo il mio trasferimento in Svezia ho iniziato a studiare svedese, che è ancora la mia terza lingua ma che va via via migliorando.
Con mia moglie, ormai, parliamo quasi sempre svedese, anche se a volte ce ne dimentichiamo e ricominciamo con l’inglese.

È comunque davvero curioso come funzioni il cervello di un adulto: quando vado in Francia e provo a rispolverare il mio francese scolastico, mi ritrovo puntualmente a mischiarlo con lo svedese. Non l’italiano nè l’inglese, ma proprio lo svedese, la terza lingua.
Al di là delle cose più banali (mi viene da dire “men” al posto di “mais“, entrambi significano “ma” e si confondono facilmente), mi ritrovo a ringraziare con “tack så mycket!” o, addirittura, a iniziare una frase in francese e continuarla in svedese, col risultato di restare, io stesso, basito.

Il punto è che, se tutto va bene, a fine marzo/inizio aprile nascerà la bimba, e, a quel punto, la questione linguistica diventerà ancora più importante: come parleremo con lei, per evitare che la sua lingua madre diventi una sorta di esperanto o interlingua, ma fare in modo che si conservi comunque almeno l’anima bilingue svedese e italiana? La parlata locale sarà, ovviamente, quella veramente indispensabile per lei, ma, chiaramente, ci teniamo anche al fatto che possa esprimersi nella lingua paterna.
L’idea di base è di parlare svedese quando saremo in tre; mentre l’italiano verrebbe usato quando sarò io a parlare con lei da sola o durante le sessioni via Skype con i miei genitori.
Da quello che ci è stato detto, un sistema di questo tipo è piuttosto funzionale: il cervello di un bimbo è molto più flessibile di quello di un adulto, e la piccola dovrebbe riuscire a passare da una lingua all’altra senza troppi problemi e senza fare troppa confusione.
Per l’inglese, possiamo aspettare: alla fine lo imparerà come tutti gli altri svedesi.

Ovviamente il nostro vero incubo è un altro: vivendo e interagendo con gli altri bambini a Malmö, la bimba finirà inevitabilmente per parlare il dialetto skånska, col risultato che sia io che mia moglie avremo serie difficoltà a capire ciò che dirà. Ma questo è uno scenario apocalittico cui, al momento, non vogliamo pensare troppo. 😉

Il continente

Mi ha sempre fatto impazzire il fatto che gli svedesi si riferiscano a Copenaghen come “continente”, quando la capitale Danese è posta su un isola, mentre la Svezia è parte di una penisola che, del continente Europeo, fa parte sul serio.

La recente visione di un documentario (in svedese) del 2006 sul dialetto scanico, mi ha permesso di capire veramente il modo di pensare degli Svedesi. Il documentario (purtroppo non ho trovato sottotitoli di alcun tipo) è davvero interessante, e porta avanti una tesi importante per cui il “confine continentale” non sarebbe quello marino dello stretto di Öresund, ma andrebbe invece identificato all’interno del territorio svedese.

Immagine presa dal documentario della tv di stato Svenska dialektmysterier
Immagine presa dal documentario della tv di stato Svenska dialektmysterier

Ci sono alcune differenze fondamentali che, ancora oggi, separano lo Skåne dal resto della Svezia. Le più evidenti sono nella lingua e nell’architettura, ma anche in certe situazioni pubbliche.
Il giornalista autore del servizio fa infatti notare come nei caffè e nelle Konditori del sud si venga talvolta ancora serviti ai tavoli, cosa che gli Svedesi associano allo stile di vita continentale. Nel resto del paese bisogna portarsi da soli cibo, caffè e tazze dal banco o da grosse tavolate appositamente predisposte.
Ed effettivamente, a pensarci, anche la mia pasticceria preferita di Svezia, la suggestiva ed elegante Sundbergs a Stoccolma, è basata sul “self service”.

Sulla lingua ho già fatto qualche accenno in passato: gli svedesi trovano ostico il dialetto skånska, le cui due peculiarità principali sono la erre arrotolata (presente anche nel danese e di origine francese) e i particolari dittonghi (minuto 17:40 del documentario). Questi ultimi sono invece una caratteristica unica condivisa solo con i danesi dell’isola di Bornholm, la sola zona in cui si parla ancora il “danese orientale” che è alla base, appunto, dello skånska.

Ma è con l’architettura che le cose si fanno più interessanti anche per chi non coglie le sfumature del parlato: uno degli elementi simbolo dei panorami svedesi sono infatti le celebri case di legno colorate in Rosso Falun, diffusissime in tutta la nazione. Tutta la nazione tranne lo Skåne.

Da Wikipedia - foto di Susann Schweden. Licenza Creative Common
Da Wikipedia – foto di Susann Schweden.
Licenza Creative Common

Abitazione a Mullhyttan
Abitazione a Mullhyttan

Qui nel sud è infatti molto più tipico il mattone con intelaiatura a traliccio (Korsvirke in svedese), in forme simili a quelle molto diffuse, appunto, nel continente e Inghilterra (le cosiddette “case Tudor”).
Abitazioni di questo tipo sono molto frequenti nelle campagne, ma se ne trovano spesso anche in città, come nel caso di Lilla Torg a Malmö, o di buona parte del centro storico di Ystad.

Case in korsvirke ad Ystad
Case in korsvirke ad Ystad
Da Wikipedia – foto di Jorchr.
Licenza Creative Common

Lilla Torg
Lilla Torg

I motivi di queste differenze sono soprattutto storici e geografici. Lo Skåne apparteneva infatti alla Danimarca fino al 1658, anno in cui, durante una delle molte guerre del periodo, l’esercito Svedese marciò dalla Polonia fino alla Danimarca del sud per poi attraversare (a piedi e cavallo!) i tratti di mare ghiacciato del Piccolo e del Grande Belt, arrivando a sopresa alle porte di Copenaghen. Nonostante le promesse iniziali, secondo cui l’allora Danimarca dell’Est avrebbe conservato lingua e leggi originali, ci fu una spietata assimilazione, con il divieto di parlare danese e il rogo di tutti i testi che non fossero in svedese. Quello che resta di questa operazione di pulizia è, appunto, lo skånska, la versione svedesizzata del vecchio danese dell’est.
Ma anche la geografia ha avuto il suo ruolo: la Scania è situata nella penisola Scandinava, ma è, in realtà, separata dal resto della Svezia da paesaggi aspri e fitte foreste che rendevano piuttosto complicati gli scambi, mentre lo stretto di Öresund poteva, invece, essere percorso agevolmente da imbarcazioni. Insomma, la cultura continentale riusciva ad arrivare piuttosto facilmente a Malmö e dintorni, ma si fermava sulle foreste che separano lo Skåne dal resto della Svezia.

Il giornalista di SVT ha fatto un semplice esperimento: è risalito lungo le campagne da Malmö per cercare il punto in cui le case in korsvirke vengono rimpiazzate da quelle in legno rosso. Lo ha trovato (minuto 21:07) in Örkelljunga, cittadina in cui le due tipologie abitative coesistono.
A fare da controprova, l’area di diffusione dei dittonghi dello svedese del sud coincide, più o meno, con lo stesso territorio.
La conclusione del servizio è quindi che il confine fra il “continente” e un non specificato “non continente” (il “Nord”?) sia da trovare proprio a Örkelljunga e nei paesi che fanno parte della stessa fascia.

Personalmente, non so come reagire a questo tipo di pensiero. Devo dire che il sud è la zona del Regno che ho visitato per prima, e quindi, per me, è quasi naturale associare questo tipo di architettura alla Svezia. Per mia moglie, invece, non è proprio così: sin dalla prima volta che siamo scesi assieme al sud non ha mai mancato di farmi notare come tutto per lei fosse “danese” o, appunto, continentale. Ed, effettivamente, le sensazioni ambientali che ricevi da una città come Lund sono decisamente diverse da quelle che hai da Uppsala, giusto per citare due località paragonabili: lo Skåne è sicuramente il ponte culturale che unisce la Svezia alla Danimarca, così come la Danimarca è il ponte fra il Nord e la Mitteleuropa. Pur con questo assunto, devo dire, però, che trovo davvero difficile pensare che il continente finisca ad Örkelljunga…

Goteborg non esiste

Per la serie “le mie battaglie contro i mulini al vento”, voglio ringraziare chi (soprattutto i giornalisti) è riuscito ad imporre l’orribile Goteborg al posto dello storico, e decisamente più sensato, Gotemburgo per indicare in Italia la città che in Svezia chiamiamo Göteborg.

Mentre il toponimo storico italiano era corretto, adesso ci ritroviamo con qualcosa che non è italiano, non è svedese e non si sa cosa sia. E poi, anche nello scriverlo, vuoi mica che quei due punti sulla o siano importanti? 😀

So per certo che in posti come in Inghilterra, Spagna e Portogallo si utilizza ancora il nome adattato (vedi Gothenburg o, appunto, Gotemburgo), e non so come sia la cosa nel resto del mondo, ma non importa: visto che gli italiani ti guardano perplesso (sempre se non arrivano addirittura a sfotterti) quando dici “jettebòri“, ho deciso che, d’ora in poi, nella parlata, userò sempre il bellissimo Gotemburgo.
Perché Goteborg non esiste. 😛


AGGIORNAMENTO: Gotemburgo ha, fra l’altro, una caratteristica: è l’unica città di Svezia ad avere adottato ufficialmente un doppio nome, accettando anche la versione inglese Gothenburg. I motivi sono soprattutto storici: in quanto grande porto, e grazie alla sua posizione, Gotemburgo è sempre stata la più internazionale delle città svedesi. Dopo gli inizi “olandesi”, la comunità britannica ha avuto un ruolo rilevante nella crescita della città, influenzandone in maniera determinante lo sviluppo.

Di topi ed elaboratori

Le palle dei topi sono da oggi disponibili come parti di ricambio. Se il vostro topo ha difficoltà a funzionare correttamente, o funziona a scatti, é possibile che esso abbia bisogno di una palla di ricambio. A causa della delicata natura della procedura di sostituzione delle palle, è sempre consigliabile che essa sia eseguita da personale esperto.

Prima di procedere, determinate di che tipo di palle ha bisogno il vostro topo. Per fare ciò basta esaminare la sua parte inferiore. Le palle dei topi americani sono normalmente più grandi e più dure di quelle dei topi d’oltreoceano. La procedura di rimozione di una palla varia a seconda della marca del topo. La protezione delle palle dei topi d’oltreoceano può essere semplicemente fatta saltare via con un fermacarte, mentre sulla protezione delle palle dei topi americani deve essere prima esercitata una torsione in senso orario o antiorario. Normalmente le palle dei topi non si caricano di elettricità statica, ma è comunque meglio trattarle con cautela, così da evitare scariche impreviste. Una volta effettuata la sostituzione il topo può essere utilizzato immediatamente.

Si raccomanda al personale esperto di portare costantemente con se un paio di palle di riserva, così da garantire sempre la massima soddisfazione dei clienti.

Nel caso in cui le palle di ricambio scarseggino, è possibile inviarne richiesta alla distribuzione centrale utilizzando i seguenti codici:

PIN 33F8462 – Palle per topi americani

PIN 33F8461 – Palle per topi stranieri

Questo manuale interno per i dipendenti IBM circola da qualche decennio fra gli informatici (e non solo) italiani come fonte di risate e scherno nei confronti di un traduttore considerato troppo zelante.
Gli Italiani sono fatti così: prendono per i fondelli i “nazionalisti” francesi che osano chiamare il computer ordi(nateur) e il mouse souris, senza rendersi conto di rappresentare invece una vera e propria eccezione a livello mondiale.
Computer, monitor, mouse, scanner, hard disk, docking station e compagnia sono tutti termini entrati nell’utilizzo comune in ambito informatico, e il loro uso suona oggi naturale: quando ti muovi all’estero, però, ti rendi conto in fretta di come negli altri paesi non sia generalmente così, al punto di cominciare a farti domande sull’esterofilia dilagante nello stivale.

"Senza palle, a chi!?!"
“Senza palle, a chi!?!”

Un termine come computer è, ad esempio, usato anche in paesi come Danimarca, Paesi Bassi e Germania. Buona parte degli europei, però, utilizza invece un termine nella propria lingua: qui in Svezia è dator, in Finlandia è tietokone, in Norvegia è datamaskin. Ma anche le nazioni neolatine non scherzano: ecco il computador portoghese, la computadora castigliana, il già citato ordinateur francese, il calculator rumeno e così via. E il resto del continente? Andiamo dal počítač ceco allo számítógép magiaro, passando per l’arvuti estone e il bilgisayar turco. Poi è chiaro che, probabilmente, in buona parte di questi paesi si utilizzerà o, quantomeno, comprenderà anche il termine computer, ma non è comunque il lemma principale per indicare quello che in Italia potremmo tranquillamente chiamare “elaboratore“.
Ma se computer ha comunque una certa diffusione, stati sicuri che il “mouse” sarà chiamato pressochè in ogni paese con l’equivalente locale della parole “topo”. E, statene altrettanto sicuri, per loro è nomale. E nessuno ride. Svedese? (Dator)mus! Tedesco? Maus! Danese? Mus! Spagnolo? Ratón! Polacco? Mysz! Finlandese? Hiiri… e così via!
Solo in italiano abbiamo deciso di perdere completamente il riferimento all’animaletto “topo” per utilizzare, senza alcun motivo, un termine straniero.

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Solo per restare nell’ambito dello svedese, qui un monitor è uno skärm, l’hard disk è un hårddisk (termine ibrido, ma almeno non totalmente estero), un tablet è un surfplatta, una docking station (termine che in Italia si abbrevia orribilmente con “la docking”, come se fosse l’aggettivo a prevalere) è una Dockningsstation. L’unico termine che probabilmente si salva ancora in italiano è “tastiera” (per i curiosi: tangentbord in svedese), forse perché preesistente e radicato.
Anche quando avevamo termini italiani che venivano utilizzati, come “schermo”, “disco rigido” o “scheda madre”, ormai si usa più di frequente, soprattutto nel linguaggio comune, l’equivalente inglese maccheronico (arrdìsk?).
Persino nell’inventarci nuovi verbi, siamo riusciti a riadattare malamente la terminologia inglese, invece che usare l’impalcatura dell’italiano preesistente. Ecco quindi gli orribili formattare, masterizzare (il più insensato di tutti), scannerizzare e così via.
Non parliamo poi, di quando si prova a fare i fighi con gli acronimi, finendo per arrivare a pronunce esilaranti: non sapete quante volte ho sentito HDMI trasformato in “acca-di-emme-ai”, tre quarti in italiano e un quarto in inglese!

Per carità, in qualche caso l’inglese fa comodo ed è penetrato anche qui in Svezia: ad esempio si dice “mejl*” (ma esistono anche i nativi e-post ed e-brev) perchè effettivamente è più comodo e veloce di elektroniskt meddelande; si utilizza “att surfa” (surfare, navigare su internet) perché, in fondo, si conserva comunque la metafora originale… però si tratta per lo più di eccezioni pratiche, spesso dovute all’assenza di eventuali termini concisi, che non costringano a locuzioni particolari. E anche se inglesizzazioni discutibili non mancano neppure qui, magari con qualche frase fatta derivata dai film in lingua originale, direi che c’è un rispetto decisamente maggiore della propria parlata.

Quello che è certo è che l’esterofilia linguistica degli Italiani, in ambito tecnico (ma non solo), lascia davvero interdetti. Perché abbiamo dovuto buttare via la nostra lingua, e ci siamo dovuti perdere dietro a termini come “mouse”, “tablet”, “touchpad”, “gamepad”, “tower”, “laptop”, che in italiano non hanno alcun significato, quando avremmo potuto usare altri termini già esistenti o inventarcene di adeguati? Perché dobbiamo essere gli unici al mondo a ridere di fronte ad un sensatissimo** manuale di istruzioni scritto per la nostra lingua, e perché dobbiamo anche divertirci a sfottere quelli che, in altri paesi, usano correttamente la propria parlata? Perchè fa più cool? Mentre ci penso, vi devo lasciare… Devo andare ad un meeting che sono riuscito a fatica a fittare nella mia schedule e che si terrà in una venue davvero spettacolare. Se poi avrò tempo, questa sera mi vedrò il replay del parbuckling della Costa Concordia, in time lapse sulla mia televisione full-accaddì! Alla prossima!

* notare come agli svedesi piaccia tuttora riadattare le lingue estere alla propria fonetica: un altro esempio è “dejt”, che si usa perché è un po’ difficile rendere l’eccezione britannica di “date” (inteso come appuntamento romantico, ma anche come la persona che è oggetto dell’appuntamento stesso).

** d’accordo, personalmente avrei utilizzato “sfere” al posto di “palle”…

Luglio e Agosto

Dopo due mesi di “quasi vacanza” (dal blog), eccomi a rifare il punto della situazione prima di ricominciare.
A Luglio, con mia moglie e mia suocera, siamo andati un paio di settimane a trovare i miei genitori in Calabria. Se ogni volta che rientro in Italia c’è sempre un certo “shock”, quando vado al Sud la situazione è anche peggiore.

Giusto per elencare qualche punto:

  • l’aeroporto di Catania è davvero il peggio organizzato in cui sia mai stato
  • la Salerno-Reggio Calabria è sempre un pianto
  • i pazzi criminali che guidano in autostrada incollandotisi al didietro e lampeggiando mentre stai facendo un sorpasso sono tutti da arrestare
  • gli storditi che utilizzano l’auto per fare una “passeggiata” sul lungomare (magari fermandosi a chiacchierare nel mezzo della strada con l’amico che arriva in senso opposto) sono una delle cose più irritanti che ci sia (le passeggiate si fanno a piedi, che fa anche bene!)
  • la sanità è qualcosa di davvero imbarazzante (due medici su due hanno dato a mia suocera dei medicinali, senza tenere conto che avrebbero creato dei problemi con quelli che lei prende regolarmente, al riguardo dei quali erano stati avvisati. Per fortuna niente conseguenze serie, ma grazie per il rischio e la bella figura!)

Tutte cose che, per come sono abituato ora (ma anche un po’ per la mia mentalità), vanno dall’assurdo all’alieno.

Però, tolto questo piccolo sfogo (permettetemelo! :-P), ovviamente sulla bilancia ci vanno anche gli aspetti positivi: la famigghia, il mare, i posti splendidi, il cibo delizioso e i prezzi stracciati dello stesso… tutti elementi che fanno pendere abbondantemente l’ago dalla parte del “più”, facendone comunque una piacevolissima vacanza.
È però innegabile che lo shock ci sia sempre. 😀

Palmi's Tonnara: Panorama
Tropea from the beach

Al ritorno in Svezia, è stato il momento di un ritorno lampo alla buona vecchia Upplands Väsby per il Väsby Rock Festival, un piccolo festival metal che si è tenuto il tre agosto nel parco di Vilunda. Nonostante Väsby sia una delle piccole “capitali” del genere (per gli appassionati, basti sapere che band come Europe, Candlemass, Malmsteen e Therion sono nate, o hanno mosso i primi passi, qui), l’evento è stato un flop clamoroso. Forse non è stata grande idea organizzare un evento proprio nel periodo in cui la gran parte è degli svedesi è appena rientrata (se non deve ancora rientrare) dalle vacanze, e in concomitanza con il più grande evento mondiale di genere (il Wacken, che si tiene nel nord della Germania nello stesso periodo). Anche una popolazione decisamente “rock” come quella Svedese ha, evidentemente, i suoi limiti.
Nonostante la pochissima gente e un deciso caldo bestiale (c’erano poche aree all’ombra) il festival è stato comunque decisamente godibile, e si è concluso con una grande performance degli U.D.O.

U.D.O. @ Väsby Rock Festival

Tornato a Malmö, è stato il momento di rientrare al lavoro. In quello che faccio, mi interfaccio (principalmente) con le filiali italiane di Tetra Pak, quindi, come potete immaginare, è stato un agosto fin troppo tranquillo, viste le chiusure aziendali e le ferie di gran parte del personale.
Il tempo, in compenso è stato per lo più magnifico con, a parte qualche giorno, belle giornate di sole ma mai troppo calde: un bel contrasto rispetto alle notizie che arrivavano dall’Italia, da cui sentivo di alluvioni o di temperature torride.

Metà agosto ci ha visto affrontare un viaggio in direzione Mullhyttan, piccolo paese di campagna nella provincia storica del Närke in cui vivono i parenti (lato madre) di Helena. L’occasione è stata quella di un matrimonio, svoltosi secondo quelli che ho già descritto come i “canoni classici” del matrimonio alla svedese.
Mullhyttan, pur essendo fondamentalmente un semi-agglomerato di villini/fattorie sparsi fra campi e foreste, mi piace da morire: quando sono lì mi sembra di essere nella Svezia più pura, fra gente semplice e accogliente, e con una natura splendida. Non nascondo di apprezzare anche il fatto di riuscire a capire tutto quello che la gente dice, mentre a Malmö, dopo oltre due anni, continuo ancora ad avere qualche difficoltà con lo skånska. Che, ci posso fare? Sono lento! 😀
Una cosa curiosa di Mullhyttan, ma anche di quasi tutti i paesi simili, è che gran parte delle abitazioni non ha un indirizzo vero e proprio: essendo che molte delle case sono sparse nei campi o nei boschi, lontano dalle vie centrali, l’indirizzo è spesso il nome stesso dell’abitazione (regolarmente registrato). Non vi stupite, quindi, se leggendo un indirizzo svedese doveste trovare qualcosa con appendice torp, termine che vuol dire, più o meno, “cottage”.

Mullhyttan
Mullhyttan

Con la seconda metà del mese siamo, di fatto, entrati, almeno a livello metereologico, nell’autunno. È ancora un autunno molto piacevole e si può stare in maniche corte, ma le temperature si stanno abbassando velocemente e, soprattutto, le giornate si sono decisamente accorciate! Ormai è solo una questione di una ventina di giorni per arrivare all’equinozio, che porterà all’annuale sopravvento dell’oscurità rispetto alla luce. Tempi bui in arrivo… (a Malmö neanche poi troppo, in realtà :-D)

Nel frattempo, in Finlandia…

Chiunque si sia mai interessato alla geografia svedese si è, probabilmente, prima o poi chiesto come mai, intorno al Golfo di Botnia (la propaggine settentrionale del Mar Baltico) esistano delle regioni chiamate Västerbotten (“Fondo Occidentale”) e Norrbotten (“Fondo Settentrionale”), ma non un Österbotten e un Söderbotten.
La risposta è che il Söderbotten non esiste, perché sotto il Golfo c’è, appunto, il Baltico propriamente detto, mentre l’Österbotten è quella parte della Finlandia che i “Finlandesi-che-parlano-finlandese” chiamano Pohjanmaa.

“Finlandesi-che-parlano-finlandese” non è scritto per caso. Se è chiaro, infatti, che la stragrande maggioranza della popolazione della Repubblica dei mille laghi parla proprio la suomen kieli, esistono regioni, fra cui appunto l’Ostrobotnia, dove la lingua madre è invece lo svedese, ovvero la seconda lingua ufficiale di Finlandia: tutti i documenti scritti nella lingua scandinava hanno valore, e tutti gli atti ufficiali devono essere disponibili in versione bilingue.
Come se non bastasse, lo svedese viene insegnato a scuola come seconda lingua a tutti i bimbi finnici, anche quelli che vivono in regioni parecchio distanti da quelle in cui è lingua principale.
La cosa ha ovvie ragioni storiche: la Finlandia è stata per parecchi secoli, prima di una parentesi russa e dell’indipendenza, sotto il dominio svedese, e certe cose, nel bene e nel male, non si dimenticano. Fra le due nazioni esistono tutt’ora rapporti molto amichevoli.
Nella considerazione degli Svedesi, il legame con la Finlandia è inferiore solo a quello nei confronti di Danimarca e Norvegia (ricordo che è un errore considerare scandinavi i finlandesi) e il rispetto reciproco è sempre elevato.
Ad una buona fetta di Finlandesi, però, l’insegnamento scolastico dello svedese non va proprio giù: non capiscono infatti, perché dovrebbero imparare una lingua per loro piuttosto inutile, molto poco parlata del mondo, che molti dimenticano in fretta e che è un’eredita dei tempi in cui la nazione era soggiogata da regimi non sempre troppo benevoli nei confronti della cultura locale.
Ovviamente la risposta dei favorevoli sta nel fatto che lo svedese è comunque la lingua madre di 350.000 connazionali (connazionali che studiano comunque anche il suomi) e che è giusto fare in modo che anche loro si sentano tutelati in un rapporto paritario, anche considerando il fatto che molte di queste persone abitano comunque al di fuori delle zone ufficialmente considerate “di lingua svedese”.
Esistono, a quel che ho potuto intendere, diversi livelli di contrarietà: da chi vorrebbe semplicemente evitare l’insegnamento scolastico dello svedese nelle aree non interessate a chi vorrebbe un disconoscimento tout court della lingua come ufficiale, con tutte le sfumature del caso
nel mezzo.
Fino a questo momento, però, il tutto si era limitato ad accesi dibattiti o ferme prese di posizione ideologiche. Nessuno si sarebbe infatti aspettato quello che sarebbe successo in questi giorni: alcuni giornalisti, politici e personalità in vista hanno infatti dichiarato di avere cominciato a ricevere minacce di morte o di stupro (nel caso di donne) al riguardo della questione.
Le minacce hanno colpito sia persone di lingua sia svedese che finlandese, queste ultime accusate di non fare abbastanza per affermare il nazionalismo suomi: le vittime avrebbero dovuto attivarsi a favore del finlandese con dichiarazioni pubbliche e/o astenersi dall’uso dello svedese, pena gravissime conseguenze.
La cosa ha fatto scalpore, ma sembra avere suscitato l’effetto opposto rispetto a quello voluto: una alla volta, a partire dalla giornalista Bettina Sågbom, le persone minacciate hanno, anziché seguire gli ordini ricevuti, fatto “coming out”, rivelando il contenuto dei messaggi intimidatori (“faremo in modo che sembri un incidente” affermava una delle email).
Subito si sono sollevate proteste, si sono sentite parole di solidarietà e dichiarazioni importanti a favore del bilinguismo (su Twitter ha preso piede l’hashtag #jagälskarsvenska), al punto che, alla fine, il partito populista dei Veri Finlandesi (Perussuomalaiset) ha dovuto, dopo parecchi giorni di imbarazzante silenzio, capitolare e prendere le distanze dalle minacce.

Insomma, si spera ora che i finlandesi possano ora decidere cosa fare della lingua svedese in pace e in autonomia, ma gli eventi di questi giorni dimostrano una volta di più che non è il nazionalismo esasperato la soluzione.

Politically Correct alla Svedese

Già da tempo, nel parlare con gli Svedesi (tanto in inglese quanto o lingua madre), mi sono tolto il brutto vizio di usare di default il maschile quando il sesso della persona non è conosciuto (ad esempio se si parla di un bambino – o di una bambina – che nascerà) o quando si parla in maniera generica: una persona generica è, infatti, “lui o lei”.
Mentre l’Italiano è una lingua a prevalenza maschile (per un gruppo di persone miste si utilizza sempre il maschile plurale, il femminile si usa solo se sono tutte donne), per lo svedese non è così, e certi nostri utilizzi derivati dall’abitudine suonano strani, se non offensivi.

Qui è sempre “han eller hon” per tutto, ma devo dire che, comunque, non mi è ancora capitato di sentire una sola persona usare il posticcio “hen”, termine asessuato creato ad arte negli ultimi decenni da alcuni pazzoidi…

Sono rimasto però assolutamente sorpreso quando la fiorista, nel momento di comprare una rosa per mia moglie, mi ha detto “aggiungo le istruzioni per lui o lei”, concetto ribadito poi in seguito…
In Italia, qualcuno devasterebbe il negozio. 😀

Di battesimi e viaggi a Stoccolma

A inizio gennaio ho potuto assistere al mio primo battestimo secondo i crismi della Svenska kyrka, per il primogenito di una coppia di amici stoccolmesi.

Come già notato per altri riti religiosi, la prima cosa che salta all’occhio è il livello di “pompa” decisamente minore rispetto al rito cattolico.
Anche in questo caso, il prete, che qui ha più libertà nel preparare la cerimonia (concordandone i passaggi assieme ai familiari), ha avuto un atteggiamento decisamente meno formale, più lieve ed “umano”, durante la celebrazione, rispetto al tipico celebrante italiano.
Il tutto visto dall’esterno, l’impressione è quella che i credenti abbiano più a che fare con un “compagno” di culto, che non di una qualche forma di autorità.

Due le note particolari: la prima riguarda l’impostazione della cerimonia che, come detto, è stata ancora una volta piuttosto informale, alternando alle preghiere e ai canti religiosi anche momenti laici. La famiglia del bimbo ha avuto modo di eseguire dal vivo un brano scritto dal papà (musicista professionista) per il bimbo, senza alcuna tematica sacra. Nulla di strano, se penso che, l’anno scorso, ho assistito ad un matrimonio religioso conclusosi, per la musica che accompagnava l’uscita degli sposi, sulle note di Don’t Stop Me Now dei Queen!

La seconda nota riguarda il prete stesso, ovvero la classica persona che, dalla Chiesa Cattolica, verrebbe definito come un “peccatore”. Non che abbia in qualche modo parlato di certe sue preferenze, ma la cosa era palese a tutti, senza che, peraltro, questo fosse un problema. La Chiesa Svedese non discrimina infatti i preti omosessuali, e permette anche loro di sposarsi con compagni dello stesso sesso.
Eva Brunne è salita qualche anno fa agli onori della cronanca per essere la prima vescova (si dice così?) apertamente omosessuale del mondo cristiano. Per carità, resistenze al riguardo esistono anche qui, ma permettetemelo: quanta ipocrisia in meno!

Attenzione, però: non è che un rito meno pomposo e formale implichi una minore ufficialità o serietà della cerimonia. Il bimbo è stato accolto ufficialmente come nuovo arrivato nella Chiesa Svedese e il fatto di avere musica o altri momenti “non sacri” non sminuisce mai il valore liturgico.

Dopo la cerimonia, nei locali stessi della chiesa, si è tenuta l’immancabile fika con i convenuti.

Altra considerazione, che vale anche per i matrimoni: i regali, qui, sono decisamente più semplici, meno sfarzosi e, soprattutto, sono economici. Niente abbondanza di oggetti in oro, niente somme importanti, niente liste nozze o battesimo o altro. Il regalo è spesso un piccolo pensierino piuttosto semplice, in cui, spesso, si bada più a fare qualcosa di personale che non a cercare di “non fare brutta figura”. Anche questo è un tipo di semplicità che, personalmente, apprezzo molto.
E se proprio lo volete sapere, non esistono neanche le bomboniere: un’intera industria che, qui, non ha ragione di esistere. 😀

Il viaggio mi ha anche dato l’occasione di rivedere brevemente Stoccolma, e qui non nascondo di avere provato un po’ di nostalgia. Gli splendidi panorami acquatici, il mio amato Pub Anchor, la lingua comprensibile, la neve abbondante che copriva tutto (nel frattempo si è sciolta anche lì, ma rispetto alle sputacchiate del brutto e umido inverno scanico è tutta un’altra storia) hanno sicuramente sollecitato il mio animo più malinconico. Per quanto apprezzi Malmö, è Stoccolma la città di cui mi sono veramente innamorato e che mi ha fatto, a sua volta, innamorare della Svezia. Chissà, forse un giorno torneremo a vivere lì…

La chiesa di Boo, vicino a Stoccolma
La chiesa di Boo, vicino a Stoccolma

Piccolo appello ai giornalisti italiani

Mi piacerebbe che i giornalisti italiani facessero più attenzione nello scrivere i nomi svedesi e, in generale, stranieri.

Per carità: forse in passato, scrivendo di musica, la cosa ha riguardato anche me, ma col tempo mi sono reso conto che mi piacerebbe vedere una maggiore professionalità e attenzione, in particolare da chi è pagato per fare il suo lavoro.

Probabilmente ancora molti non se ne rendono conto, forse per superficialità o semplice mancanza di abitudine, ma le varie dieresi o anelli diacritici non sono dei simboletti messi a casaccio: hanno invece un motivo di esistere, e vale quindi la pena sbattersi per imparare le combinazioni di tastiera necessarie per scriverli.

Innanzitutto, quantomeno per la lingua svedese, i simboli in questione non sono solo dei semplici accenti o caratteri diacritici: quando usiamo, per esempio, la å o la ö non siamo di fronte a versioni modificate della a o della o. Si tratta infatti di lettere indipendenti, che hanno un proprio posto specifico nell’alfabeto svedese (che, per chi non lo sapesse, si definisce “dalla a alla ö”).
É chiaro che questo aspetto può essere ignorato, e ci mancherebbe altro, da chi non conosce le specifiche della lingua, ma dovrebbe quantomeno sorgere il sospetto che quei simbolini una qualche importanza ce l’abbiano, e per questo dovrebbero essere rispettati.
L’importanza sta tutta nella pronuncia, che cambia radicalmente a seconda che quei simbolini ci siano o meno.

Mi capita spesso, ad esempio, di leggere Malmoe, quando il nome della città e della squadra di calcio, in qualunque lingua, è Malmö. L’escamotage di utilizzare Malmoe (che, letto in Italiano, ha una pronuncia diversa da quella reale) andava bene per le vecchie macchine da scrivere o quando, negli anni ’80, i computer avevano un set di caratteri limitato. Ora, però, siamo nel 2012: qualunque PC, Mac, tablet o smartphone permette di scrivere correttamente la ö, e la scusa non ha più motivo di esistere. Soprattutto da parte di professionisti del settore.

Qualche giorno fa sono rimasto spiazzato dal leggere sul sito del più celebre giornale sportivo nazionale il nome Kallstrom. Il motivo è che la pronuncia di Källström (come andrebbe scritto) è molto più simile a “sciellstrem” che non a “callstrom”, e leggere Kallstrom risulta, ai miei occhi allenati alla lingua, decisamente strano.
Eppure pare che sia piuttosto normale, in Italia, scrivere così: tutti gli altri quotidiani, sportivi e non, riportano esattamente la stessa grafia priva di dieresi, nonostante i giornalisti ricevano sicuramente le informazioni corrette da chi di dovere.
Quello di cui, probabilmente, il giornalista medio non si rende conto è che così facendo si storpia il nome, esattamente come se si scrivesse Baffon o Gariboldi, Barlusconi o Melano, Rumazzotti o Pelermo.
Il mio appello ai professionisti della carta stampata (reale o virtuale) è quindi questo: che scriviate di cronaca, sport, musica, politica o quant’altro, impegnatevi ad imparare le scorciatoie di tastiera necessarie, e non solo la vostra professionalità ne trarrà guadagno, ma non contribuirete neppure alla diffusione dell’ignoranza.

Qui in Svezia c’è sicuramente meno approssimazione al riguardo: i nomi stranieri, almeno dai professionisti, vengono generalmente scritti in maniera corretta. Ed è così anche per quelli naturalizzati: di tanto in tanto capita di vedere ancora qualche Ibrahimovic, ma il più delle volte si trova il corretto Ibrahimović, e questo nonostante la c accentata bosniaca non faccia certo parte dell’alfabeto svedese.