Chi non risica…

Lo scorso inverno mi sono giocato una nuova grande scommessa della mia vita: con una bimba in arrivo, ho rinunciato ad un impiego a tempo indeterminato con Atea per accettare un contratto di sei mesi in Qlik.
Le motivazioni erano molteplici: il livello tecnico del lavoro da consulente in Tetra Pak era troppo basso rispetto alle mie competenze e capacità, lo stipendio era sotto la media e, come consulente, ero comunque un lavoratore di “Serie B” rispetto ai colleghi direttamente assunti da Tetra Pak.
Ovviamente è stata una decisione che ho dovuto ponderare per bene, ma quando è stato il momento ho deciso di correre il rischio. La possibilità di essere confermati era comunque concreta e, a pensarci, un qualunque contratto standard svedese prevede comunque un periodo di prova di sei mesi, che può essere concluso in qualunque momento senza motivo.

Questi mesi in Qlik sono stati magnifici: il lavoro mi piace parecchio, ho uno stipendio vero, le mie capacità sono apprezzate e i colleghi sono meravigliosi. Mi trovo immerso in una vera realtà multiculturale con persone provenienti da tutto il mondo. La lingua utilizzata nelle conversazioni (ma anche nelle comunicazioni ufficiali) è l’inglese: lo svedese si utilizza solo quando si ha la certezza che nessuno abbia problemi di comprensione, cosa che favorisce l’inserimento di tutti. In Svezia questa è l’eccezione.
Insomma… Se la fortuna aiuta gli audaci, nel mio caso ha proprio colto nel segno.

Ieri la conferma ufficiale: ho firmato il contratto che trasforma il mio impiego temporaneo in uno a tempo indeterminato.
E sono un lavoratore felice.

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Multilinguismo

Alle medie ho studiato francese, ma sono poi passato all’inglese, che parlo e capisco piuttosto bene. Ovviamente, dopo il mio trasferimento in Svezia ho iniziato a studiare svedese, che è ancora la mia terza lingua ma che va via via migliorando.
Con mia moglie, ormai, parliamo quasi sempre svedese, anche se a volte ce ne dimentichiamo e ricominciamo con l’inglese.

È comunque davvero curioso come funzioni il cervello di un adulto: quando vado in Francia e provo a rispolverare il mio francese scolastico, mi ritrovo puntualmente a mischiarlo con lo svedese. Non l’italiano nè l’inglese, ma proprio lo svedese, la terza lingua.
Al di là delle cose più banali (mi viene da dire “men” al posto di “mais“, entrambi significano “ma” e si confondono facilmente), mi ritrovo a ringraziare con “tack så mycket!” o, addirittura, a iniziare una frase in francese e continuarla in svedese, col risultato di restare, io stesso, basito.

Il punto è che, se tutto va bene, a fine marzo/inizio aprile nascerà la bimba, e, a quel punto, la questione linguistica diventerà ancora più importante: come parleremo con lei, per evitare che la sua lingua madre diventi una sorta di esperanto o interlingua, ma fare in modo che si conservi comunque almeno l’anima bilingue svedese e italiana? La parlata locale sarà, ovviamente, quella veramente indispensabile per lei, ma, chiaramente, ci teniamo anche al fatto che possa esprimersi nella lingua paterna.
L’idea di base è di parlare svedese quando saremo in tre; mentre l’italiano verrebbe usato quando sarò io a parlare con lei da sola o durante le sessioni via Skype con i miei genitori.
Da quello che ci è stato detto, un sistema di questo tipo è piuttosto funzionale: il cervello di un bimbo è molto più flessibile di quello di un adulto, e la piccola dovrebbe riuscire a passare da una lingua all’altra senza troppi problemi e senza fare troppa confusione.
Per l’inglese, possiamo aspettare: alla fine lo imparerà come tutti gli altri svedesi.

Ovviamente il nostro vero incubo è un altro: vivendo e interagendo con gli altri bambini a Malmö, la bimba finirà inevitabilmente per parlare il dialetto skånska, col risultato che sia io che mia moglie avremo serie difficoltà a capire ciò che dirà. Ma questo è uno scenario apocalittico cui, al momento, non vogliamo pensare troppo. 😉